Esteso per via interpretativa il campo di applicazione della discriminazione sessuale vietata dal Civil Rights Act del 1964
I lavoratori discriminati sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere non potevano essere licenziati
Esiste il diritto alla parità di trattamento sul posto di lavoro per gli impiegati LGBT negli USA?
Il divieto di discriminazione è sancito dal Titolo VII del Civil Rights Act del 1964. Esso si riferisce a condotte discriminatorie che colpiscono un individuo “a causa della razza, colore, religione, sesso o origine nazionale di tale individuo”.
La Corte ha esaminato tre casi. Due impiegati lamentavano di essere stati licenziati dai rispettivi datori di lavoro dopo che erano venuti a conoscenza della loro omosessualità. Uno di loro si era iscritto a una squadra sportiva per persone LGBT.
Nel terzo caso, la ricorrente lamentava di essere stata licenziata da un’impresa di pompe funebri dopo la propria transizione da uomo a donna. Aveva dunque effettuato il proprio percorso di affermazione di genere come donna transgender.
Discriminazione sessuale vietata dal Civil Rights Act: il punto controverso
Nella sentenza del 15 giugno 2020 sono stati riuniti i tre casi riguardanti i presunti licenziamenti discriminatori.
La Corte Suprema USA ha riconosciuto che l’unico fattore di discriminazione protetto dalla normativa applicabile era il “sesso”, da intendersi con riferimento alla differenza biologica tra maschio e femmina.
Né l’orientamento sessuale né l’identità di genere figurano esplicitamente come fattori protetti da condotte discriminatorie dei datori di lavoro. Il punto controverso era, dunque, se il divieto di discriminazione sulla base del sesso potesse applicarsi anche a condotte che colpiscono lavoratori LGBT.
Il ragionamento della Corte prende le mosse dal concetto di causalità.
Si tratta del rapporto che lega la caratteristica personale protetta alla condotta discriminatoria e all’evento del licenziamento.
La Corte chiarisce che la legge non stabilisce che il principio della parità di trattamento entri in gioco quando la discriminazione avviene “solo” o “principalmente” sulla base del sesso.
Iin buona sostanza, è sufficiente che la condotta discriminatoria sia avvenuta “anche” sulla base del sesso affinché possa dirsi applicabile il Civil Rights Act.
Il cuore della decisione
Si può ragionevolmente affermare che il licenziamento di una persona gay, lesbica o transgender è avvenuto sulla base del sesso? Secondo la Corte Suprema, sicuramente si.
Nelle sue parole: “un datore di lavoro che licenzia un individuo per essere omosessuale o transgender licenzia quella persona per tratti o azioni che non avrebbe messo in discussione in appartenenti al sesso diverso.
Il sesso gioca un ruolo necessario e non dissimulabile nella decisione, esattamente ciò che il Titolo VII proibisce”.
Come già ricordato, non è rilevante che la condotta discriminatoria avvenga parzialmente anche per altre ragioni. Un datore di lavoro viola il divieto di discriminazione – ci ricorda la Corte – anche quando licenzi intenzionalmente un individuo anche solo in parte per ragioni connesse al sesso.
Non importa che altri fattori abbiano contribuito alla decisione di licenziare; né importa che il datore di lavoro tratti le lavoratrici donne, come gruppo, allo stesso modo rispetto agli uomini, come gruppo. Ciò che rileva è il caso individuale e la posizione dello specifico lavoratore.
Il test applicato per rilevare l’esistenza di un licenziamento discriminatorio è quello, ben noto, del but for. Ovvero, si chiede la Corte: se cambiassimo il sesso del lavoratore che si dice discriminato, la scelta del datore di lavoro sarebbe stata diversa? In tal caso, si riscontrerebbe una violazione della norma e la conseguenze illegittimità del licenziamento.
Secondo la Corte, “è impossibile discriminare una persona per essere omosessuale o transgender senza discriminare quell’individuo sulla base del sesso”. Vediamo più in dettaglio la questione.
Il fattore “sesso”
La Corte prende in esame la situazione in cui un datore di lavoro abbia due dipendenti, entrambi attratti dagli uomini. I due individui si trovano, agli occhi del datore di lavoro, in circostanze materialmente identiche sotto tutti i profili, tranne il fatto che uno è un uomo e l’altro è una donna.
Se il datore di lavoro licenzia l’impiegato maschio per nessun’altra ragione diversa dal fatto che questi sia attratto dagli uomini, il datore di lavoro discrimina il dipendente per tratti o azioni che invece tollera nella dipendente donna.
In questo caso, il sesso del dipendente viene pertanto in rilievo come criterio posto a base della decisione (il famoso but fortest), ovvero emerge nel rapporto di causalità che lega il fatto al danno, ovvero che qualifica la condotta del licenziamento come condotta discriminatoria.
Lo stesso si può dire nel caso del licenziamento di una persona transgender, che fu identificata come maschio alla nascita ma che al momento attuale si identifica come femmina.
Se il datore di lavoro le preferisce una dipendente ‘altrimenti identica’ ma identificata come femmina alla nascita, egli intenzionalmente penalizza una persona identificata come maschio alla nascita per tratti o azioni che tollera in una dipendente identificata come femmina alla nascita.
Anche in questo caso, il sesso del dipendente ha giocato un ruolo decisivo nella decisione di licenziare.
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